S E M I N A I R E

Lo spazio come esternalità in via di estinzione : terziarizzazione e lavoro cognitivo (Articolo in italiano)

vendredi 5 novembre 2004 par Andrea Fumagalli

La nozione di esternalità implica il rapporto unilaterale che va dall’ambiente a quello interno al luogo di produzione

Il concetto di esternalità nel pensiero economico dominante è sempre stato marginale. Con questo termine, ci si riferisce all’esistenza di condizioni esterne al luogo della produzione che ne influenzano la dinamica. Si parla di esternalità negative quando tali condizioni esterne procurano effetti, appunto, negativi sulla struttura produttiva, causando in modo diretto o indiretto un aumento del livello dei costi. Si hanno invece esternalità positive quando, nel caso opposto, tali condizioni esterne influenzano in modo positivo la dinamica della produzione, via incremento dei ricavi o della produttività.

Il concetto di esternalità non ha nulla a che fare con il concetto di economieo diseconomie esterne. Si può dire che i due concetti sono fra loro reciproci. La nozione di esternalità implica il rapporto unilaterale che va dall’ambiente a quello interno al luogo di produzione, mentre il concetto di dis/economia esterna descrive il nesso opposto, ovvero l’effetto della produzione verso l’ambiente esterno ad essa circostante.

Le questioni che intendo sviluppare sono le seguenti :

l’evoluzione delle forme di esternalità, ovvero l’evoluzione delle forme produttive e dell’organizzazione del lavoro nei confronti dello spazio dell’agire umano, sia materiale che virtuale ;

il rapporto odierno nel paradigma dell’accumulazione flessibile tra esternalità (se ancora esistono) e divisione del lavoro, nelle sue componenti manuale e cognitivo.

1. Le forme dell’esternalità dal fordismo al postfordismo

Nella storia economica capitalistica, le esternalità dipendono dall’evoluzione dei rapporti tra i fattori produttivi. Da questo punto di vista, il concetto di esternalità ha coinciso con lo spazio fisico, geografico ed economico, al cui interno tali rapporti si sono costantemente definiti. La dinamica socio-economica ha portato ad una continua ridefinizione di questi fattori produttivi : la terra ha perso di rilevanza come proprietà ad uso agricolo a vantaggio di ciò che oggi possiamo denominare le risorse naturali ; il lavoro, da erogazione di attività manuali legate all’uso di utensili, si è via via trasformato in una prestazione lavorativa complessa, tra il materiale e l’immateriale, che necessità forme di organizzazione sempre più molteplici ; infine, il capitale, fattore produttivo dai molti usi, ha nel corso degli ultimi due secoli aggiunto alla primaria funzione di mezzo di produzione fisico anche quelle più immateriali, legate all’attività finanziario-speculativa e allo sfruttamento delle capacità umane più differenziate (capitale umano e sociale).

Anche il rapporto tra capitale e lavoro si è trasformato sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, in un processo di metamorfosi che ha lasciato comunque inalterato il carattere di asimmetria gerarchica e di discriminazione a svantaggio del lavoro e a favore di chi detiene il capitale, comunque esso venga definito (sfruttamento). Qui ci preme sottolineare che oggi sempre più l’evoluzione della natura conflittuale e dialettica insita nei rapporti tra i fattori produttivi tende a trovare uno sbocco nella continua ridefinizione dello spazio territoriale economico, all’interno del quale tali conflitti si sviluppano. Nel concetto di spazio, intendiamo includere sia lo spazio fisico e geografico e dell’ambiente, il cui ruolo in parte è analizzato all’interno dell’evoluzione del fattore produttivo “terra”, sia lo “spazio” funzionale dell’interazione economica e sociale dell’agire umano, nel quale la dinamica del rapporto capitale-lavoro si connette e definisce l’esperienza storica in modo concreto e contingente.

Nella tradizione economica tali due tipologie di “spazio” sono state solitamente considerate in modo separato.

Nell’economia politica, lo spazio, inteso come territorio geografico, quando è stato analizzato, è sempre stato considerato un elemento esogeno, in grado di definire un vincolo alle possibilità di sviluppo e di crescita economica, al limite in grado di influenzare in qualche modo alcuni parametri (i “fattori dati” secondo l’espressione di Keynes [1]) del modello economico di riferimento. E’ in questa luce che viene criticato in anni recenti il rapporto tra territorio ed economia, grazie soprattutto ad una serie di contributi proposti dal Center for International Development (Cid) della Harward University [2], con particolare riferimento al ruolo che le caratteristiche fisiche dello spazio giocano sulle potenzialità di crescita di un sistema produttivo locale e la produttività dei fattori.

Si noti che tali questioni erano state già evidenziate da Adam Smith nel suo noto testo sulle cause della ricchezza delle nazioni. Nel pensiero smithiano era già presente l’idea che l’accessibilità dei luoghi, la loro prossimità alle vie d’acqua e le caratteristiche climatiche possono avere un notevole impatto sulla crescita dei sistemi regionali :

“Una volta che il trasporto per vie d’acqua abbia aperto ad ogni sorta di attività un mercato più ampio di quello consentito dal solo trasporto per via di terra, è naturale che sia sulle coste del mare e lungo le rive dei fiumi navigabili che queste attività cominciano a progredire e suddividersi, mentre spesso deve passare molto empo prima che i progressi penetrino all’interno del paese” [3].

Gli studi di Sachs e del Cid [4] introducono nell’analisi economica il ruolo dello spazio come variabile in grado di modificare e diversificare i sentieri di crescita : in alte parole, i fattori “geoeconomici” diventano rilevanti nello spiegare alcune dinamiche sociali e politiche che con i soli strumenti dell’analisi economica difficilmente potrebbero essere compresi.

Lo spazio geografico come esternalità negativa neutrale

La separazione tra geografia ed economia (che il termine “geoeconomia” tende ad unificare) è stato oggetto di una lunga e storica contrapposizione. Da un lato si sono sviluppati i cosiddetti “modelli localizzativi”, che si basano sull’ipotesi di “isotropicità” dello spazio [5], dall’altro, l’attenzione più recente si è focalizzata sui modelli di integrazione economia-spazio, a partire dai modelli gravitazionali e dalla definizione di area economica o geoeconomica.

Nei modelli classici di localizzazione, in presenza di isotropicità, lo spazio è considerato in termini di “pura distanza” :

“l’elemento spaziale che interagisce con le scelte economiche degli operatori è, ...., la distanza, che va colmata per trasportare le persone e i prodotti o per accedere ai servizi che si vogliono attivare. La realizzazione di ogni transazione economica implica dunque la considerazione di un costo legato ad atti di trasporto sul territorio. La condizione di isotropicità dello spazio implica che, a parità di distanza, il costo connesso alla sua percorrenza è identico quali che siano i punti di partenza e/o di destinazione legati al suo superamento” [6].

In un simile contesto, i modelli di economia spaziale sono allo stesso tempo spazialmene definiti, ma totalmente astratti, generali e decontestualizzati. Gli ambiti territoriali così rappresentati, la loro funzione, vengono definiti “economie dimensionate” [7], ovvero definiscono il confine spaziale del modello economico, senza influenzarne il funzionamento. Lo spazio isotropico è utilizzato come “sfondo” o “quadro d’insieme” per intendere i processi di localizzazione delle attività produttive. In altre parole, lo spazio è solo geografico (e non geoeconomico) ed è neutrale rispetto alle variabili economiche. E’ evidente la matrice neoclassica di tale scuola di pensiero, che tende a limitare il problema economico allo studio di schemi relazionali umani “astratti”, basati sull’ipotesi di comportamenti di individui che in linea teorica, al fine di massimizzare obiettivi individuali, agirebbero come agiscono in qualunque parte del mondo e in qualsiasi momento del tempo. La neutralità dello spazio ha la stessa funzione dell’ipotesi di neutralità della tecnologia : la pretesa di rendere l’economia politica una scienza metastorica e metaspaziale.

L’ipotesi di neutralità dello spazio e la sua riduzione a semplice distanza geografica implica che il territorio rappresenta una esternalità negativa, cioè un costo, che deve essere minimizzato in un contesto razionale di uso efficiente delle risorse, ma si tratta di un’esternalità negativa neutrale, ovvero che non condiziona in modo differenziato i singoli comportamenti razionali degli agenti economici. E’ sulla base di tale presupposto che si sviluppa la moderna teoria della localizzazione produttiva e commerciale, che, tuttavia, ha già le sue fondamenta nel pensiero fisiocratico di Cantillon [8] e di Quesnay. I fisiocratici propongono una sorta di teoria del processo di “antropizzazione”, individuando diversi livelli di urbanizzazione (città, borghi, villaggio) che agglomerano al loro interno funzioni economiche e produttivi differenti a seconda dei possibili usi del territorio.

Tale schema prefigura non solo il modello centro-periferia, che tanto successo ha avuto nel dopoguerra [9], ma anche un nesso di causalità tra territorio e struttura sociale. E’ ovvio che nel momento stesso in cui si passa all’accumulazione manifatturiera e alla rivoluzione dei trasporti, il rapporto centro-periferia e la struttura sociale ad essi connaturata si modifica. Da questo punto di vista, considerare lo spazio come semplice distanza geografica omogenea diventa alquanto fuorviante. Già nello schema di Smith, come si è visto, ciò che conta non è tanto la distanza lineare in sé e per sé, quanto le caratteristiche morfologiche che la definiscono e, per conseguenza, del mezzo di trasporto che può essere impiegato per colmarla.

Finchè il contesto teorico-astratto è quello della produzione precapitalistica, dove la tecnologia è neutrale o inesistente, lo spazio è per definizione isotropico. Nel momento stesso in ci si considerano altri fattori produttivi, quali i beni capitali e le diverse forme di lavoro, allora le caratteristiche non solo materiali-morfologiche ma anche umane-immateriali del territorio (esito dell’esperienza storica ivi accumulata) divengono variabili endogene fondamentali per spiegare la dinamica della crescita locale e le forme di accumulazione che si sono sedimentate nel tempo.

Il dibattito sul significato economico dello spazio verte tra questi due estremi e lo spazio diventa arbitro e testimone della metamorfosi del rapporto tra i fattori produttivi. Nell’impostazione neoclassica di equilibrio economico generale, ovvero nell’impostazione neoliberista, la variabile spazio non è una vera e propria variabile economica. Esso non rientra in quel ristretto numero di variabili che influenzano le scelte comportamentali degli individui razionali che costituiscono il centro dell’analisi neoclassica. Vi è quindi una netta separazione tra economia politica e geografia economica. [10].

Quest’ultima di fatto formalizza lo schema fisiocratico, componendo il primo vero modello di economia spaziale del tipo “città-campagna”, nel quale la distanza finisce con lo svolgere un ruolo esplicitamente centrale, formalmente espresso e matematicamente misurabile in relazione alle scelte di localizzazione delle attività economiche [11].

Ha inizio così la disciplina della geografia economica, come branca separata, seppur collegata, dell’economia politica.

La scuola dominante della geografia economica si fonda così su alcuni postulati, che possono essere riassunti nei seguenti punti [12] :

Lo spazio è uniforme, isolato dai contesti circostanti, “concentrato” attorno a un centro urbano che rappresenta il mercato di sbocco della produzione ;

Lo spazio è isotropico : ha le stesse caratteristiche morfologiche di produttività rispetto a ciascun bene e le stesse caratteristiche morfologiche ; il trasporto della produzione può avvenire con un unico mezzo di trasporto ;

Il costo del trasporto dipende dalle caratteristiche del prodotto peso unitario, volume, deperibilità, ecc.) e dalla distanza da percorrere ;

Il costo di trasporto è a carico dei singoli produttori e rientra nella funzione dei costi di produzione ;

La produzione analizzata può essere indifferentemente quella agricola o industriale.

In conclusione, possiamo riaffermare che lo spazio rappresenta una esternalità negativa, o, meglio, che l’esternalità negativa si identifica nello spazio geografico.

Tali caratteristiche, come visto, traggono la loro origine teorica dal modello centro-periferia applicato alla sola produzione agricola, in ambiti territoriali circoscritti e supposti omogenei. Esse vengono poi estese a tutta l’analisi della localizzazione, consentendo in modo implicito di supporre neutrale il ruolo dello spazio e le sue proprietà morfologiche. Tale indebita estensione risulta tanto più ingiustificata, tanto più si sviluppa nel corso del XX secolo il regime d’accumulazione fordista-taylorista.

In tale contesto, se la centralità dell’area metropolitana risulta sempre più confermata (ed è questo l’unico punto che si mantiene valido nel passaggio dalla produzione agricola a quella industriale), tuttavia le modalità del trasporto e le caratteristiche dello spazio territoriale divengono altrettanto importanti sia per definire le traiettorie merceologiche di sviluppo, sia per delineare le filiere produttive e di localizzazione delle grandi aree industriali.

Lo sviluppo della geografia economica o, come oggi si dice, della geografia spaziale va di pari passo allo sviluppo dell’analisi dei flussi commerciali tra aree e delle migrazioni, ovvero dell’economia internazionale. L’affermarsi del paradigma di accumulazione taylorista-fordista evidenzia l’incremento dei flussi commerciali nel secondo dopoguerra e la standardizzazione dell’organizzazione produttiva, basata sulle grandi imprese, da un lato induce ad accettare l’idea di comodo che lo spazio sia tutto sommato isotropico e omogeneo e che l’unica variabile che conta sia la distanza geografica e il corrispondente costo di trasporto. Al limite, l’ipotesi di isotropicità viene delimitata al concetto di aree regionali, introducendo in tal modo elementi di geoeconomia nella definizione del territorio, che comunque non diventa ancora una variabile a se stante. In effetti, l’elemento di spazialità del territorio si riduce essenzialmente alla distanza e ai costi ad essa associati, che devono essere il più possibile ridotti. Pur riconoscendo l’esistenza di spazi tra loro diversi e non più isotropici, la teoria geoeconomica degli ultimi trent’anni non definisce in modo compiuto il territorio come variabile economica a se stante, ma semplicemente come “esternalità negativa”. E’ in questo quadro che negli anni Novanta, come ricordato, prende vigore l’analisi “alternativa” del Cid e di Sachs, che, imputando al territorio, come variabile autonoma, le possibile cause di crescita economica, riqualifica lo spazio e le sue caratteristiche anche in termini di risorsa da sfruttare in termini economici positivi (lo spazio come possibile esternalità positiva)

Postfordismo e esternalità

Lo spazio, di solito denominato “territorio”, diventa una risorsa nel momento stesso in cui il regime di accumulazione taylorista-fordista entra in crisi e si assiste al processo di diffusione spaziale della produzione in alcune aree regionali dotati di particolari infrastrutture socio-economiche. In tale contesto, ciò che viene maggiormente indagato è la struttura dei flussi materiali, informazionali e relazionali che definiscono il territorio in oggetto. La costituzione di strutture produttive a rete, grazie allo sviluppo delle innovazioni legate alle comunicazioni e al trasporto, consentono la creazione di circuiti e networkproduttivi, che permettono di sfruttare al meglio le sinergie economiche che si creano nell’ambito spaziale del territorio. Numerosi ad esempio sono gli studi sulla struttura geoeconomica di alcuni aree regionali come il Nord-est italiano, ma molto poche sono le ricerche sull’analisi della sostenibilità ambientale di queste nuove forme di sfruttamento spaziale.

E’ in quest’ambito che lo spazio diventa fattore produttivo autonomo e ridisegna contemporanea-mente le forme d’uso degli altri fattori produttivi, in particolare lavoro e capitale, ma soprattutto il fattore produttivo “natura”. Lo spazio geografico si trasforma da esternalità negativa a esternalità positiva.

Per il lavoro, l’uso dello spazio come fattore produttivo implica l’incremento di flessibilità e mobilità. Se nell’epoca taylorista-fordista, lo sviluppo di aree regionali geoeconomicamente forti implicava un processo migratorio della forza-lavoro sulla base delle gerarchie territoriali che l’organizzazione capitalistica (sia economica che militare) imponeva, finalizzata al rigido concentramento di manodopera disciplinata nei siti produttivi delle grandi imprese, nel regime di accumulazione flessibile post-fordista, ai fenomeni migratori indotti dai processi di internazionalizzazione della produzione, si aggiunge la mobilità flessibile “interna” del lavoro indotta dalla diffusione spaziale della produzione reticolare.

Per il capitale, la nuova frontiera tecnologica indotta dalla rivoluzione informatica e dei trasporti, se, da un lato, ha consentito di irradiare nello spazio la produzione tramite lo sviluppo di filiere produttive materiali e tramite la diffusione una rete sempre più sofisticata di comunicazione immateriale, dall’altro, ha posta la questiona strategica di dover coniugare il controllo dei processi produttivi e lavorativi in un contesto ambientale e spaziale non più riconducibile ad un unicum, bensì a una poliedricità di organizzazioni produttivi differenziate e non direttamente controllabili.

E’ dunque nel contesto produttivo di accumulazione flessibile che lo spazio, entrando prepotentemente sulla scena economica come fattore produttivo a se stante, implicitamente porta ad una metamorfosi del rapporto capitale-lavoro, non soltanto perché l’organizzazione produttiva si è trasformata, ma anche e soprattutto perché la “prestazione qualitativa” del fattore produttivo stesso tende a modificarsi in modo strutturale : il capitale si immaterializza e il lavoro diventa cognitivo.

Lo spazio come fattore produttivo non solo lambisce il concetto di “natura” ma lo ingloba. Con il termine “natura” avevamo denominato, nel contesto produttivo novecentesco e odierno, le “risorse naturali”. Nel momento stesso in cui lo spazio diviene variabile economica a tutti gli effetti, fattore produttivo in grado di influenzare l’attività produttiva, la gestione delle risorse naturali tende a coincidere con la gestione dell’ambiente, ovvero, detto in altri termini, con la sostenibilità economica del territorio.

L’approccio “bioeconomico” di Georgescu Roegen [13] ci dice che l’uso del territorio non risulta neutrale, anzi porta ad un incremento del grado di entropia del sistema, con i quali occorre fare i conti in termini di futura sostenibilità.

Lo spazio diventa così a tutti gli effetti, come il lavoro, una variabile bioeconomica.

Lo spazio come ulteriore variabile bioeconomica di interazione dell’agire umano e del general intellect : l’iperspazio, ovvero la fine dell’esternalità.

Lo spazio, così come è stato inteso sino ad ora, è essenzialmente coinciso con lo spazio fisico-geografico. Con la crisi del regime di accumulazione tayloristico, centralizzato nello spazio economico della fabbrica e nello spazio politico dello “stato-nazione” e il dispiegarsi del paradigma di accumulazione flessibile, il territorio fisico-geografico diventa lo “spazio” funzionale dell’interazione economica e sociale dell’agire umano. Ad esso, con la diffusione delle tecnologie informatiche, linguistico-comunicative e immateriali, si aggiunge anche l’esistenza di uno spazio virtuale, non più definibile da confini territoriali e fisici, ma teoricamente illimitato e immateriale, ma anch’esso nevralgico e funzionale all’agire economico e produttivo.

Lo spazio virtuale non è per definizione definibile via confini, non è uno spazio chiuso : è iperspazio [14]. Non può quindi rappresentare un vincolo, non ha distanze da colmare, è quindi solo opportunità da sfruttare, tanto più elevato è il processo di interazione globale tra i sistemi produttivi e le diverse forme di accumulazione.

“L’impossibilità di vedere il mondo come iperspazio lo rende irrappresentabile, non permette di dare un immediato senso geografico alla società globale ; possiamo solo tracciare le mappe delle reti e dei nodi e descrivere e descrivere la molteplicità dei locali e loro connessioni che configurano i flussi e le nuove gerarchie dei territori. E ciò che fa la geografia della comunicazione. Anche la geografia dunque si è fatta eterea. Ora la cartografia delinea le mappe delle reti, gli spazi invisibili dell’interazione e della comunicazione, che modificano gli spazi reali. E innanzitutto si coniuga al plurale, perché non di rete e di interconnessioni si deve parlare, ma di rete lunghe, corte, mercantili, comunitarie, semantiche [15] e di interconnessioni molto diverse fra loro per campi, interessi, esiti, che configurano tanti universi separati che convivono” [16].

Eleonora Fiorani, in questo brano, introduce il termine di geografia della comunicazione. Sulla base della discussione precedente, potremmo parlare di geoeconomia della comunicazione. Si tratta di un nuovo modo di pensare e configurare la geografia e quindi lo spazio. Non per questo viene meno l’importanza della fisicità dei luoghi (se non altro perché il passaggio dallo spazio all’iperspazio è comunque determinato e influenzato dai luoghi fisici che hanno segnato la dinamica economica dei decenni precedenti) : tuttavia, la territorialità è modificata dall’immaterialità della comunicazione e acquisisce altri sensi.

In tale passaggio, si configura la trasformazione dello spazio (sia fisico che virtuale) in potente esternalità positiva, sino al punto di poter affermare che il concetto di esternalità negativa tende a sparire. O meglio, che lo stesso concetto di esternalità “tout-court” tende a svanire, dal momento che il processo di accumulazione sussume tutto ciò che gli è intorno, sia come spazio fisico che come spazio virtuale. In altri termini, non esiste più un “esterno” alla produzione di valore (accumulazione bioeconomica).

In primo luogo, lo spazio diventa il luogo in cui le diverse molteplicità organizzative, da un lato, e le diverse modalità di prestazione lavorativa e contrattuale, dall’altro, si interconnettono e creano plusvalore. La capacità di creare valore dipende anche dal modo in cui lo spazio fisico e quello comunicativo si caratterizzano e vengono conseguentemente gestiti. Intendiamo con ciò non solo gli aspetti fisici-territoriali, ma anche la geografia culturale e sociale dei singoli luoghi, che gioca un ruolo molto importante non solo nelle decisioni di investimento e di delocalizzazione produttivamaanchenellacrescita della produttività connessa alla cooperazione sociale immateriale e della conoscenza (general intellect).

Nelle parole di Marx :

“Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità a esso. Fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale” [17]

La cooperazione sociale di cui parla Marx nei Grundrisse (general intellect) è fondata sul sapere (knowledge) e si manifesta nella struttura reticolare delle reti immateriali esemplificate da Internet. L’enorme compressione spazio-temporale e l’importanza assunta dalla reti lunghe non hanno tuttavia reso meno importante lo sviluppo delle reti di prossimità, in parte spazialmente delimitate. L’elemento che maggiormente le definisce è l’attività di apprendimento e di generazione delle cognizioni lavorative. L’apprendimento risulta essere un processo temporalmente dinamico che necessita di massa critica iniziale e sedimentazione spaziale. Ed è in ambiti spaziali che hanno una particolare storia economica e culturale alle spalle, nonché caratteristiche morfologiche favorevoli (clima, prossimità a vie di comunicazioni, ecc.) [18], che si possono sedimentare processi di conoscenza e di apprendimento tali da generare economie dinamiche positive. In questo contesto, lo spazio diventa un fattore economico nevralgico, non solo dal punto di vista fisico-geografico, ma soprattutto come luogo (e “non luogo” [19]) di interazione comunicativa e sociale virtuale.

Il territorio è un bene collettivo,

“da cui non si può prescindere e che può essere gestito solo da una collettività. Lo spazio delle relazioni quotidiane resta il territorio : esso è infatti costituito dalle relazioni con le cose e dai rapporti con gli altri. È il luogo in cui la comunicazione è basata sulla prossimità, le relazioni sulla fiducia e le pratiche sul sapere condiviso. Ed è questo patrimonio di saperi, conoscenze, affetti l’oggetto dell’investimento postfordista. Se lo spazio delle trasformazioni sociali non è più solo quello fisico, questo accresce la sua importanza in quanto intersezione tra spazio della vita e spazio globale della comunicazione” [20].

Lo spazio diventa così fattore di accumulazione. E lo diventa tanto più quanto più lo spazio virtuale della comunicazione tende a trasformare a suo uso e consumo lo spazio fisico e tende a diventare “un elemento costitutivo delle identità collettive” [21], in modo diverso a seconda della capacità dei territori di porsi come nodi di reti.

Si sviluppa così una nuova divisione internazionale del lavoro che a quella tradizionale delle mansioni e qualifiche di origine taylorista aggiunge anche quella generata dalla divisione spaziale del sapere e della comunicazione. E’ questa la nuova divisione internazionale dei processi di accumulazione che sta alla base delle dinamiche spaziali globali. La geografia della comunicazione e della conoscenza è anche geografia dell’esclusione. A livello internazionale, siamo di fronte ad un mondo a pelle di leopardo in cui le zone ipertecnologizzate e connesse in rete sono circondate dai mondi della fame e della sete, che comprendono buona parte del pianeta. Quello che è comunemente chiamato il digital divide non è altro che il fattore strutturale che sta alla base dell’accumulazione globale postfordista, senza il quale le leve del comando neoliberista non riuscirebbero ad imporsi. Le gerarchie geoeconomiche che ne derivano sono il frutto di tale divisione iperspaziale del sapere e del saper “far rete” o “saper comunicare”..

Paradossalmente, il divenire bioeconomico dello spazio, lungi dal sancire il primato dell’economia sulla geografia, ribadisce nel paradigma dell’accumulazione flessibile il primato del territorio. Al riguardo, scrive Jeremy Rifkin :

“In un mondo connesso, fatto di processi e di temporalità, la geografia è più che importante che mai. I contatti fra uomini si fondano su qualcosa di più che un sistema elettronico di trasmissione-ricezione e di un’interfaccia commerciale : i legami più profondi tra gli uomini non possono che formarsi e consolidarsi nello spazio geografico” [22].

“Il territorio è molto più che una banale convenzione sociale : è uno stato dell’essere” [23]

L’identità esistenziale con il territorio è sempre esistita e il legame con la terra è sempre stato un elemento di definizione di sé per l’essere umano, già ricordato più volte nel pensiero filosofico e che Deleuze e Guattari hanno richiamato nel concetto di geofilosofia.

Da questo punto di vista, l’iperspazio, nel momento stesso in cui viene sfruttato in termini economici per favorire il processo di accumulazione, inglobando la stessa identità e la vita umana, diventa a tutti gli effetti variabile bioeconomica.

Tale caratterizzazione è riscontrabile anche nel locale e non solo nei processi di divisione internazionale globale della comunicazione e del sapere. Si riscontra in tal senso il superamento della dicotomia spazio pubblico - spazio privato, così come tende a scomparire la separazione tra tempo di vita (tempo libero-individuale e privato) e tempo di lavoro (tempo pubblico e sociale) (Foucault). Si assiste ad una sorta di frammentazione dello spazio, che potremmo definire anche “individualizzazione dello spazio”. Un processo, per certi versi, analogo a quello che caratterizza il processo lavorativo. Tale individualizzazione dello spazio favorisce maggiormente l’identificazione con il territorio di appartenenza e porta al sorgere di localismi, spesso anche esasperati, come forma di resistenza identitaria di fronte alla percezione di un iperspazio senza confini. Ne consegue una contraddizione strutturale : più procede il processo di globalizzazione e di riduzione delle distanze fisiche e virtuali, quindi quanto più aumenta il potenziale comunicativo-sociale tra gli uomini e le donne, condizione nevralgica per l’accumulazione cooperativa postfordista, tanto più fenomeni localistici prendono piede, sviluppando tensioni individualistiche e rischi di conflitti bellici.

E’ l’esito irreversibile della nuova divisione spaziale delle comunicazione e della conoscenza. Al riguardo, ci pare appropriata l’analisi di Zigmut Bauman, quando teorizza della differenza tra luoghi (spazi) emici e luoghi (spazi) cannibalici [24], suggerita dalla riflessione di Levy-Strauss [25] :

i luoghi emici sono quelli che sputano fuori gli altri, che non si fanno penetrare e che espellono l’estraneo, sono gli spazi di interdizione e di accesso selettivo esaminati da Rifkin ma possono essere anche i ghetti urbani ;

i luoghi cannibalici sono quelli che ingoiano e trasformano l’alterità secondo se stessi, ovvero la sussumono, secondo il linguaggio marxiano : la lasciano sussistere svuotata di ogni significato, assimilandola ai propri valori o rendendola omogenea ad essa.

Tale distinzioni ci può essere utile per indicare gradi differenti di esternalità positive (ammesso che sia lecito parlare ancora di esternalità).

Se applichiamo questa distinzione ai luoghi che determinano il processo economico, in modo grossolano possiamo ipotizzare che i luoghi del lavoro e della produzione postfordista sono tendenzialmente emici (processi di terziarizzazione). I vari distretti finanziari e amministrativi, per esempio, da quello di Wall Street di New York al quartiere della Défence di Parigi, possono costituire degli ottimi esempi. Anche la recinzione di luoghi pubblici, come i giardini e i parchi, per vietare l’accesso e l’uso a chi viene considerato “diverso”, porta alla diffusioni di luoghi emici. A livello aziendale, i nuovi spazi lavorativi basati sul concetto di “open space”, ma con postazioni individuali, quali quelli dei call-center, risultano il più delle volte inospitali, con l’effetto di rendere impossibile l’addomesticamento dello spazio. La relazione comunicativa che esiste in questi luoghi è funzionale a quel tipo di cooperazione produttiva necessaria per l’estrazione postfordista del plusvalore, basata più sull’esteriorità dei comportamenti e delle apparenze, condizione necessaria per sviluppare immaginari competitivi e individualistici.

Di converso, i luoghi adibiti al consumo sono tendenzialmente spazi cannibalici, cioè tesi a rendere gli individui, nel rito dello shopping, consumatori tutti uguali. Un esempio eclatante è rappresentato dai centri commerciali, definiti anche le nuove piazze delle moderne metropoli.

“Sono mezzi di comunicazione sofisticati, progettati per riprodurre elementi o immagini di cultura, in forma simulata e commerciale. Inglobano le attività, venute meno, della piazza : qui la gente vive la propria esperienza sociale. E’ lo stesso shopping che trasla di significato e assume centralità sociale” [26].

Come scrive lo stesso Bauman

“Il codice in cui è iscritta la nostra ‘politica di vita’ deriva alla pratica dello shopping” [27].

Detto in altri termini, tutto ciò che facciamo, che vogliamo essere o rappresentare, tende a trasformarsi in merce e ad essere soggetto ad un valore di scambio. Guardando, toccando, scegliendo, facendoci condizionare, comprando, ci assicuriamo ricette e modelli di vita, immaginari esistenziali, e in tal modo strutturiamo la nostra identità per renderci appetibili a nostra volta come merci o come oggetti d’amore o di simpatia. Tutto ciò non viene fatto per il gusto dell’apparire o per fattori di realizzazione personale all’interno di una sfera extra-economica, così come è stato sempre fatto. Oggi, nell’era della comunicazione spaziale, tale attività acquista un preciso significato economico, perché nella relazione economica che produce accumulazione e valore di scambio, l’oggetto non è la semplice merce, ma ciò che la merce rappresenta per noi, ovvero è la nostra esistenza che è oggetto di continuo e crescente mercimonio.

Il centro commerciale rappresenta l’elemento simbolico di questo processo, così come tutti i luoghi cannibalici. Ed è in quest’ottica che assume anche un significato economico come mezzo produttivo il concetto di “nonluogo”, coniato da Marc Augé [28]. Per Augé, l’evoluzione della configurazione spaziale architettonica tende a partorire un numero crescente di spazi del nostro vivere e lavorare che si possono definire “nonluoghi” : ad esempio, i luoghi di transito e di passaggio, in cui si collocano le reti del trasporto e dei servizi, dei commerci, del divertimento e dello spettacolo, luoghi a cui si contrappongono quelli in cui sono depositati i segni dell’identità, della memoria e della storia. Più in generale, come suggerisci Fiorani :

“nonluogo è oggi il carattere funzionale che sta trasformando le nostre stesse città in palcoscenici teatrali, in luoghi del consumo, della comunicazione, dello spettacolo, in cui si perde lo spessore della storia e della memoria” [29].

Lo spazio fisico-geografico viene sussunto nello spazio comunicativo-virtuale, diventa quasi organo vivente in quanto strettamente interrelato con la cooperazione sociale produttiva umana.

In questo contesto, spazio, lavoro e tempo sono strettamente interconnessi e non separabili : tutti si alimentano tramite di immaginari virtuali comuni seppur differenziati, per essere sempre più appetibile : il tempo di frenesia, il lavoro di competizione, lo spazio di design.

Ne consegue che la liberazione del tempo e dal lavoro implica anche un nuovo spazio liberato e viceversa [30].

Conclusione : sussunzione reale e divisione del lavoro : la scomparsa delle esternalità.

Il contesto bioeconomico dell’accumulazione flessibile ha pervaso qualsiasi spazio fisico e virtuale non solo della natura umana ma anche dell’ambiente in cui l’uomo vive.

Nel paragrafo precedente abbiamo accennato alla sussunzione dello spazio fisico-geografico in quello comunicativo-virtuale (dallo spazio all’iperspazio). Tale passaggio è reso possibile dal ruolo centrale che il lavoro cognitivo ha assunto nel processo di accumulazione. Non mi soffermo su questa dinamica, che è nota ai presenti, né sulla distinzione tra lavoro cognitivo immateriale e lavoro cognitivo materiale, fondata sul riconoscimento che oggi la prestazione lavorativa ha a che fare, pur se in modo diverso e variegato, con le qualità intellettive e relazionali, a prescindere dal tipo di produzione. L’esito, in brevis, è una nuova divisione del lavoro basata sul grado delle competenze e dei saperi che si somma e ingloba quella tradizionale taylorista fondata sulla divisione delle mansioni e degli incarichi. Ciò che mi preme sottolineare è che il ruolo centrale del lavoro cognitivo è reso possibile dal processo di sussunzione reale della vita degli individui alle esigenze di produzione di valore del sistema imprenditoriale e capitalistico. Definisco tale processo con il termine di accumulazione bioeconomica. Con tale locuzione, si intende l’analisi dei rapporti economici tra spazio, lavoro, natura che sottendono alle nuove forme di accumulazione sulla base della struttura gerarchica definita dalle forme della biopolitica e del biopotere dominanti.

Nella bioeconomia attuale, il rapporto tra spazio e lavoro è diventato virtuoso. In particolare, risulta centrale l’analisi tra spazio della comunicazione (iperspazio) e sviluppo del lavoro cognitivo. L’economia della conoscenza [31], come forma più sofisticata per consentire incrementi di produttività e di valore all’accumulazione flessibile capitalistica, è il frutto sinergico di questo connubio, che genera rendimenti crescenti di scala di tipo dinamico [32].

Ma, come abbiamo già sottolineato, se il rapporto tra iperspazio e lavoro cognitivo-immateriale può dar adito allo sviluppo di reti lunghe, quello tra spazio geografico e lavoro cognitivo-materiale da invece dito a reti di prossimità.

Tale contesto è particolarmente evidente nelle realtà metropolitane terziarizzate. In tutte le realtà metropolitane d’Europa, da Parigi, a Londra, passando per Monaco, Berlino, Milano, Barcellona, il processo di terziarizzazione è stato assai consistente negli ultimi 25 anni. In queste realtà, la struttura modulare e flessibile della produzione tendenzialmente immateriale si sta strutturando sempre più secondo la divisione della conoscenza e dei saperi.

L’esempio di Milano

Pur non essendo ancora una “world city”, secondo la definizione di Saskia Sassen [33], la realtà metropolitana milanese rappresenta un buon esempio di questa nuova divisione del lavoro fondata sulla conoscenza e insito nel processo di terziarizzazione.

Praticamente irrilevanti sono oggi alcuni settori manifatturieri che una volta costituivano l’asse portante del processo di industrializzazione milanese, anche recente (anni ‘80) : con incidenza inferiore all’1%, infatti, si collocano gli occupati delle industrie dei mezzi di trasporto (0,78%), le industrie delle macchine per ufficio e elaboratori (0,69%), industrie della carta (0,66%), l’industria degli accessori personali, per la casa e per il tempo libero (0,52%) [34].

Il quadro che emerge, come ci si attendeva, rappresenta l’esito di un processo di terziarizzazione, che ha interessato lo sviluppo dei servizi proprio in quei settori che oggi nel campo manifatturiero sono quasi scomparsi. Si tratta di un processo di dematerializzazione della produzione che vede in Milano forse il centro più avanzato in Italia, soprattutto nel campo della finanza e del credito e in quello delle telecomunicazione e dei media (anche su carta).

Ma a tale avanzata nei settori terziari più avanzati fa da riscontro un’altrettanto incremento del peso occupazionale (e valore aggiunto) dei settori terziari meno immateriali e più tradizionali (dal magazzinaggio, al catering, alla grande e piccola distribuzione, a quelli che sono denominati “servizi operativi alle imprese”, ovvero logistica minore, che ha a più fare con lo smistamente delle merci fisiche che con il lavoro cognitivo-cerebrale).

Occorre anche notare che i settori terziari più in crescita (finanza, informatica e telecomunicazioni e servizi operativi) sono anche quelli che hanno visto crescere di più il peso della grande dimensione. Le imprese con più di 250 addetti, infatti, detengono, mediamente, un peso su gli addetti intorno al 50%, con l’unica eccezione dei servizi avanzati alle imprese (35,3% di addetti nelle piccolissime imprese e 24,0% in quelle tra 10 e 49 addetti).

La tendenza alla crescita dimensionale del terziario evidenzia un processo di taylorizzazione della produzione di alcuni servizi, teso a sfruttare meglio le nuove forme di economie di scala sia statiche (di scopo) che dinamiche (processi di apprendimento). L’unico settore che sembra ancora immune da tale processo è quello strategicamente rilevante dei servizi avanzati, dove la struttura reticolare basata su piccole unità produttive è ancora ben radicata nella realtà metropolitana milanese. Tale tendenza viene in parte confermata anche dalla qualificazione professionale degli addetti, divisi tra operaio e impiegati, come indicatore rozzo della prevalenza di attività più manuali o di relazione e cognitive. La presenza di mansioni operaie è particolarmente rilevante nei servizi operatici alle imprese e nei trasporti e posta (pony-express) e negli alberghi e servizi di catering (dove, come lecito attendersi, si registra il picco dei lavoratori stagionali). Praticamente irrilevanti sono le mansioni operaie nel settore del credito e della finanza e nel comparto dell’informatica e telecomunicazioni (< 10%). Di poco superiore (rispettivamente il 23% e il 32%) la presenza operaia nei servizi avanzati alle imprese e nel commercio. Laddove la figura impiegatizia è decisamente maggioranza, invece, si possono registrare due modelli organizzativi del lavoro cognitivo-relazionale e di sportello. Da un lato nel settore del credito e della finanza e dell’informatica-telecomunicazione, si registra un aumento della subordinazione del lavoro, sempre più inserito in ambiti produttivi di crescente dimensione, dove le procedure di standardizzazione delle pratiche relazionali-comunicative inducono ad una crescente e più complessa organizzazione del lavoro all’interno di processi di routinizzazione e taylorizzazione intellettuale. Dall’altro, i servizi avanzati alle imprese, sembrano mantenere una struttura produttiva ed organizzativa più modulare e flessibile, anche per la presenza di una forte attività innovativa diffusa.

Dalla veloce analisi che abbiamo svolto [35], si può osservare una sorta di polarizzazione tra servizi avanzati ad alta intensità di lavoro cognitivo e servizi operativi a maggior intensità di lavoro manuale-relazionale. E’ sufficiente per affermare che nella produzione immateriale, la presenza di lavoro più cognitivo implica lo sfruttamento dell’iperspazio come esternalità positiva, mentre la presenza di lavoro più manuale, seppur relazionale, implica lo sfruttamento delo spazio fisico-geografico (territorio) come esternalità positiva ?

[1] Keynes divideva le variabili economiche in tre categorie principali : i “fattori dati”, le “variabili indipendenti” e le “variabili dipendenti”. Cfr. J.M. Keynes, La teoria generale dell’occupazione, della moneta e interesse, Utet, Torino, 1970 (vers.orig. 1936), cap. XII.

[2] Si vedano in particolare i contributi di J.D. Sachs e dei suoi colleghi : cfr. J.L.Gallup, J.D. Sachs e A.D. Mellinger, Geography and Economic Development, “CID Working Papers” n. 1”, Center for International Development, Harward University, Cambbridge (MA), 1998, J.L.Gallup, J.D. Sachs, The Economic Burden of Malaria, “CID Working Papers” n. 52”, Center for International Development, Harward University, Cambridge (MA), 2000, J. Rappaport, J.D. Sachs, The Us as a Coastal Nation, Research Working Paper n. 11, Federal Reserve Bank, Kansas City, Usa, 2001. Per una più approfondita analisi, un utile testo di riferimento è G. Signorino, Applicare l’economia al territorio, Carocci Editore, Roma, 2003.

[3] Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Isedi, Milano, 1973 (vers.orig., 1776), pag. 75. Per Smith, il motivo di tale vantaggio comparato territoriale consiste nella diversa capacità di carico dei mezzi di trasporto che viaggiano per via acquatica o per via terreste.

[4] Vedi nota 2.

[5] Con il termine “isotropicità” si intende quella condizione ipotetica, per la quale uno spazio è supposto totalmente omogeneo, sul quale, a 360° e senza limitazione di estensione lineare, non si riscontra in nessun punto alcun vantaggio o svantaggio localizzativo specifico (in termini di facilità di movimento, regolarità fisico-morfologica, ecc.).

[6] Cfr. G. Signorino, Applicare l’economia al territorio.., op.cit., pag. 39.

[7] Cfr. ibidem, pag. 39.

[8] Per un’analisi del pensiero di Cantillon, si rimanda a P. Groenewegen, G.Vaggi, Il pensiero economico. Dal mercantilismo al monetarismo, Carocci Editore, Roma, 2002.

[9] Occorre tuttavia ricordare che la versione “moderna” del modello “centro-periferia” ha oggi connotati ben diversi da quelli riscontrabili nell’impostazione fisiocratica, dal momento che si riferisce più all’analisi delle direttrici geo-economiche tra paesi in via di sviluppo e il nucleo ristretto di paesi a capitalismo avanzato. Tuttavia, ciò che lega i due schemi, pur a de secoli di distanza, è la struttura gerarchica tra centro e periferia che ne deriva.

[10] Nel corso del XX secolo, ne è testimone lo sviluppo delle teorie della localizzazione economica, campo del sapere che non è stato oggetto di attenzione da parte degli economisti ma piuttosto dai geografi, in particolar modo dalla nota scuola tedesca a partire dal contributo pionieristico di Johann Heinrich von Thünen nella prima metà del XIX secolo Von Thünen, in realtà, nasce come economista ma acquista notorietà più come geografo economico. L’opera principale di J.H. von Thünen è Der isolierte Staat (Lo Stato isolato), pubblicato in due parti nel 1826 e nel 1850. La dizione “Stato isolato” , come spiega Spiegel (cfr. H.Spiegel, The Growth of Economic Thought, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (NJ), pag. 510), era intesa da von Thünen nel senso di “Stato ideale”. Il modello di von Thünen fu in realtà il prototipo dello schema del “paese chiuso” e nel suo sviluppo von Thünen anticipò molti importanti contributi dell’economia contemporanea e dell’approccio marginalista (che è parte integrante del modello liberista dell’equilibrio economico generale) : dal concetto di costo-opportunità a quello di uguaglianza tra prezzo e costo marginale come criterio che di determinazione delle quantità offerte. Per un’analisi più approfondita su questi aspetti e, in generale, sulla scuola tedesca di geografia economica, cfr. .Signorino, Applicare l’economia..., op.cit., specie cap. 2 ; S. Conti, Geografia Economica. Teoria e metodi, Utet, Torino, 1996.

[11] Se von Thünen concentra la sua attenzione sulla localizzazione delle produzioni agricole sul territorio attorno al centro urbano, saranno altri economisti tedeschi - Launhardt e Weber - ad applicare il metodo e lo schema di von Thünen alla localizzazione delle imprese industriali, passando così dal paradigma fisiocratico-agricolo a quello capitalistico-industriale. Al riguardo, Launhardt scrive due contributi sul tema : il primo s’intitola Die Bestimmung des zweckmässigsten Stanorteseiner gewerblichen Alage del 1882, il secondo, più generalistico, ha per titolo Mathematische Begründungder Volkwitschaftlehre e viene pubblicato nel 1885. Per approfondimenti, cfr. G. Signorino, Applicare....,op. cit., pagg. 50-59.

[12] Tali punti sono ripresi da Conti. Cfr. S. Conti, Geografia Economica..., op.cit. e riportati da G. Signorino,- Cfr. G. Signorino, Applicare....,op. cit., pag. 45.

[13] Cfr. N. Georgescu-Roetgen, Bioeconomia, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

[14] Sul concetto di iperspazio, esiste una vastissima letteratura.

[15] Su tali concetti e tassonomia del reti, cfr. E. Rullani, L.Romano (a cura di), Il postfordismo. Idee per un capitalismo prossimo venturo, Etas, Milano, 1988 e P.Bonora (a cura di), Comcities, Baskerville, Bologna, 2001.

[16] Cfr. E. Fiorani, La nuova condizione di vita. Lavoro, corpo, territorio, Lupetti, Milano, 2003, pag. 107.

[17] Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, 1968-70, II vol. pp.398, (traduzione italiana dei Grundrisse).

[18] L’approccio di Smith, ripreso da Sachs e dal Cid, non a caso viene recuperato negli anni ‘90, al momento della diffusione del paradigma dell’accumulazione flessibile e linguistica-comunicativa.

[19] Cfr. M. Augè e Fiorani

[20] Cfr. E. Fiorani, La nuova condizione di vita. ....,op.cit., pag. 109.

[21] Cfr. G. Dematteis, “Reti globali, identità territoriali e cyberspazio”, in P. Bonora (a cura di), Comcities, op.cit, pag. 52.

[22] Cfr. J. Rifkin, L’era dell’accesso, Mondadori, Milano, pag.335-336.

[23] Cfr., ibidem, pag. 177.

[24] Cfr. Z. Baumann, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002.

[25] Levy-Strauss postula due strategie opposte per risolvere il problema della diversità, l’antropoemica e l’antropofagica : cfr. E. Fiorani, La nuova condizione di vita. ....,op.cit., pag. 116. Ho preso spunto dal testo della Fiorani per le righe seguenti.

[26] Cfr. E. Fiorani, La nuova condizione di vita. ....,op.cit., pag. 116

[27] Cfr. Z. Baumann, Modernità liquida, op.cit., pag. 76.

[28] Cfr. M. Augé, Nonluoghi, Eleuthera, Milano, 1993. Si veda anche M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Eleuthera, Milano, 1999.

[29] Cfr. E. Fiorani, La nuova condizione di vita. ....,op.cit., pag. 120.

[30] Vedi TAZ.

[31] Numerosa è la letteratura al riguardo. Recentissimo è il volume di E.Rullani, Economia della conoscenza, Einaudi, Torino, 2004.

[32] Si fa riferimento ai processi di apprendimento (learning-by-doing e learning-by-using) a secondo dello sviluppo di forme diversa di conoscenza (tacita e codificata). Al riguardo, si rimanda alla vasta letteratura evolutiva sulla dinamica del progresso tecnologico e il comportamento delle imprese.

[33] Cfr. S. Sassen, Le città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna, 1997, ed.orig., Cities in the World Economy, Pine Forge Press, Thousands Oaks, 1994).

[34] I dati riportati sono quelli relativi al Censimento Istat, 2001.

[35] Per un’analisi più approfondita sul caso milanese, cfr. A.Fumagalli, “Lavoro cognitivo e terziarizzazione materiale a Milano”, in Posse, n. 6, 2003.


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