Donald J. Johnston, segretario generale dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), in un recente articolo [1] in cui anticipa i risultati dell’inchiesta PISA 2003 (Program for International Student Assessment) che saranno pubblicati entro la fine del 2004, sostiene che sistemi educativi e formativi sempre più confrontati con la competizione internazionale per la creazione di posti di lavoro, la domanda di nuove tecnologie e più ampi bisogni dell’economia della conoscenza, sono destinati ad evolvere a mezzo di shock terapeutici. “I sistemi educativi sono molto complessi. Per essere effettivi, devono rispondere rapidamente e in modo appropriato ai cambiamenti dell’ambiente economico e sociale. Paradossalmente, l’informazione sui nuovi metodi e approcci che possono aiutare gli erogatori di educazione ad adeguare i programmi e a migliorare i risultati dell’apprendimento, sono difficili da reperire e ancor più da implementare. Qualcosa di simile all’elettroshockterapia è spesso necessario prima ancora che le riforme siano prese in considerazione”. Al di là dei problemi ricorrenti delle istanze formative degli ultimi anni, come la garanzia di una equa formazione di qualità, la carenza di docenti, il rafforzamento della formazione continua per gli adulti, la diversificazione etnica e culturale della popolazione studentesca, l’ostacolo maggiore riguarda l’adeguatezza delle forme di finanziamento. I paesi dell’OCSE, secondo Donald Johnston, “devono sviluppare meccanismi di co-finanziamento attraverso i quali contribuiscano governi, imprese e individui”.
Tra tutti i buoni propositi pedagogico-riformatori, l’anello più debole per i paesi membri dell’OCSE riguarda dunque il rapporto tra formazione, ricerca e finanziamento. Se si guarda a quella “rivoluzione dall’alto” rappresentata dal modello di Bologna, ci si rende subito conto che l’orientamento generale è verso l’abbassamento della qualità della formazione universitaria di base (con la sostituzione della vecchia laurea con il Bachelor, o laurea breve) e la promozione di una formazione specializzata di tipo élitario (con i Master a pagamento). “Per la maggioranza - in Inghilterra, l’80% degli studenti smette l’università dopo il Bachelor, questo significa un brutale livellamento verso il basso del loro grado di formazione” [2]. Nei programmi di riforma dell’assetto universitario sono presi ad esempio i programmi pubblici dei prestiti agli studi in vigore negli Stati Uniti, “ma si possono sollevare dei dubbi in merito alla sua efficacia reale, quando solo pensiamo, ad esempio, che numerosi giovani si sono ingaggiati nell’esercito americano per la guerra in Iraq al solo scopo di poter pagare i loro studi” [3].
Da questo punto di vista la Dichiarazione di Bologna rappresenta uno di quegli shock di cui parla il segretario generale dell’OCSE. Si tratta né più né meno dell’applicazione ai processi formativi dei principi che regolano la produzione flessibile post-fordista, con la privatizzazione dei costi della formazione (aumento delle tasse universitarie e costi aggiuntivi per la specializzazione) e la sua deregolamentazione legata alle esigenze dei settori industriali privati (concorrenza tra poli di formazione-ricerca universitari). D’ora in poi formazione non può far rima che con precarizzazione. La colonizzazione economica dello spazio educativo ha innescato un ciclo internazionale di lotte per il diritto allo studio, lotte in cui la flessibilità/precarietà dei percorsi educativi si intreccia con quella dei ricercatori confrontati con i tagli ai finanziamenti pubblici e con l’aziendalizzazione della produzione di conoscenza e dell’innovazione. Oltre duemila direttori di laboratorio e responsabili di équipe di ricerca francesi si sono dimessi dalle funzioni amministrative per protestare contro la mancanza di fondi, opponendosi al taglio di 550 posti e rivendicando un nuovo impulso al settore della ricerca. Si tratta di capire in che misura l’intreccio tra formazione, ricerca e finanziarizzazione post-fordista è in grado di definire un terreno di scontro all’altezza delle trasformazioni dell’assetto produttivo in atto su scala globale.
Capitalismo cognitivo e finanza
La conoscenza che permette di innovare i processi produttivi, il “progresso tecnico” che contribuisce ad aumentare la produttività del lavoro e a massificare il consumo di beni e servizi, non cade dal cielo, non è esterna al contesto in cui si dà crescita economica. La conoscenza innovativa è qualcosa che si produce e che, per questo preciso motivo, deve essere remunerata. In altre parole, si tratta di considerare il progresso tecnico generato dalla produzione di conoscenza come un costo. È quanto risulta dagli sviluppi teorici nel campo dell’analisi micro-economica dei fattori di crescita. Le teorie della crescita endogena hanno infatti permesso di liberarsi dall’idea neo-classica di una conoscenza innovativa libera e esterna allo spazio dell’agire umano, quasi fosse suggerita a Robinson dal suo pappagallo, oltretutto gratuitamente [4].
Il problema che si pone riguarda quindi il rapporto tra innovazione dei processi di produzione e trasformazione dei sistemi finanziari. Il legame tra crescita economica e sistema finanziario passa dal finanziamento della produzione delle innovazioni tecniche. “La crescita dipende dunque dalle condizioni di formazione dell’equilibrio risparmio-investimento, nella misura in cui queste influenzano l’accumulazione dei fattori che determinano la traiettoria del progresso tecnico” [5].
Se l’innovazione è prodotta endogenamente, chi e come la si paga ? Dato che la produzione d’innovazione è per sua natura incerta [6], nel senso che è difficile anticiparne i rendimenti economici, come attirare l’interesse dei potenziali investitori ? E poi, dato che la conoscenza innovativa è un bene pubblico, soprattutto in un’economia fortemente congitivo-comunicativa [7] in cui la diffusione informale delle innovazioni si contrappone alla possibilità di esercitare su di esse una proprietà mercantile completa [8], quali sono i meccanismi che ne permettono l’appropriazione o la sottrazione [9] privata e/o pubblica ?
La risposta che normalmente si dà a questi interrogativi si basa sui modelli di allocazione del risparmio come fonte principale del finanziamento della crescita economica. Nel corso degli anni ‘80 i mercati finanziari liberalizzati hanno favorito il dirottamento della massa dei risparmi su titoli di proprietà che assicuravano rendimenti elevati in virtù del loro essere forme di ricchezza rigide. Il mercato immobiliare è l’esempio più noto di come la realizzazione di guadagni facili sia stata fluidificata dalle trasformazioni dei prodotti finanziari sulla falsariga delle modificazioni della struttura interna e della composizione sociale del risparmio [10]. I mercati finanziari liberalizzati hanno poi contribuito ad accelerare le ristrutturazioni aziendali secondo i princìpi della produzione snella, riducendo i costi di produzione a causa del costo eccessivo del denaro. Più i mercati finanziari hanno permesso facili guadagni, più i risparmi hanno lasciato il sistema bancario (disintermediazione) per dirigersi verso titoli di proprietà mobili (quotati in Borsa), e più le banche sono state costrette a mantenere elevati i tassi di interesse per trattenere il risparmio.
Da una parte, le ristrutturazioni, diminuendo i costi in un contesto globale sempre più competitivo, hanno favorito l’abbattimento dei prezzi, innescando la disinflazione ; dall’altra, gli aumenti dei tassi di interesse reali, dovuti alla concorrenza tra mercati finanziari e settore bancario, hanno eliminato uno dopo l’altro le rendite di posizione o i facili guadagni (come nel settore immobiliare [11]), costringendo i risparmi a dirigersi sui titoli azionari. ). In questi anni il rallentamento congiunturale, le ristrutturazioni delle imprese, le costrizioni sui budget pubblici e le difficoltà delle banche hanno inferto seri colpi di freno alle spese di Ricerca & Sviluppo delle imprese. L’uscita dal fordismo significa in questo senso la fine della centralità della produzione e del finanziamento della R&S basata sui finanziamenti all’industria degli armamenti, dell’aeronautica, dell’elettronica e della chimica [12].
La disinflazione ha così contribuito a ridurre fortemente gli investimenti in vecchi titoli non direttamente legati alla crescita economica, a tutto vantaggio dei titoli dei settori economici emergenti, in particolare il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). La nascita della new economy nel corso degli anni ‘90 si spiega appunto a partire dall’incontro tra finanza e imprese tecnologiche emergenti, le famose imprese internettiane “dotcom”.
Negli anni ‘90, la rivoluzione informatica nei servizi, le opportunità di Internet e la bolla speculativa stravolgono completamente la logica dell’innovazione negli Stati Uniti. “È una nuova versione del sogno americano, una nuova frontiera dove l’innovazione scaturisce dalla creazione di grappoli di imprese. Due persone, un’idea e un garage possono fare una nuova impresa mondiale sotto la bacchetta magica del capitale-rischio. Microsoft, Amazon o Cisco nutrono questa saga. La credenza degli investitori istituzionali americani li conduce ad apportare sempre più denaro nei fondi di innovazione [13]”.
Le trasformazioni delle modalità di finanziamento dell’innovazione di questi anni, il boom del “venture capitalism” negli Stati Uniti e i suoi effetti contagiosi nel resto del mondo, si spiegano a partire dall’importanza crescente del lavoro vivo cognitivo rispetto alla scienza incorporata nelle macchine fordiste. La rivoluzione informatica permette effettivamente di liberare quantità enormi di capitali un tempo investiti a lungo termine in sistemi produttivi rigidi. D’altra parte, la riorganizzazione delle imprese sul modello toyotista e dei distretti industriali italiani, pone la produzione dell’innovazione al centro stesso dell’agire comunicativo e relazionale della forza-lavoro. La scienza, per così dire, esce dai laboratori per incorporarsi direttamente nelle attività del vivente, da scienza incorporata nel capitale macchinico fisso si trasforma in scienza interna al corpo della forza-lavoro. È questa “trasposizione” che permette di utilizzare la categoria marxiana del general intellect, oggi non più riferita al sapere accumulato nelle forze produttive del capitale, come Marx aveva previsto per lo sviluppo storico del capitalismo industriale, bensì nei corpi viventi della forza-lavoro.
Nell’imprenditorializzazione dell’innovazione, all’origine della proliferazione delle start upnella seconda metà degli anni ‘90 e culminata nella crisi dei mercati borsistici del 2000, le start up rappresentano la vera innovazione del rapporto tra ricerca e finanza, ma anche la contraddizione tra economia della conoscenza e economia dell’informazione. Il general intellect, per così dire, si quota in Borsa, ciò che presuppone il passaggio dal terreno fertile delle idee a quello finanziarizzato della produzione di merci e servizi.
Negli Stati Uniti la trasformazione delle idee in imprese attraversa i campus universitari, è attivata da gruppi di capitalisti (Business Angels [14]) che tra loro coltivano relazioni di partenariato e apportano i capitali di avvio (seed money) ai candidati imprenditori, vede in seguito l’entrata dei fondi di investimento collettivi che garantiscono un sostegno azionariale prima ancora di entrare in Borsa. Il lancio in Borsa (NASDAQ) di valori a rischio attira i fondi pensione e i fondi comuni di investimento, permettendo ai venture capitalist di uscire dalle imprese da loro avviate realizzando plusvalori elevati. Queste “rendite di innovazione”, da una parte compensano le perdite subite nelle imprese che falliscono, dall’altra vengono utilizzate per il lancio di nuove imprese.
Il passaggio dalla logica dei Business Angels, in cui contano le relazioni personali con “tempi di semina” di 12 o 18 mesi, alla logica delle imprese finanziarie (spesso filiali delle banche di investimento, dette “incubatori di imprese”), che funzionano sulla base di criteri contabili, giuridici e di marketing e su tempi brevi, è nel medesimo tempo leva del successo delle start up e causa della loro crisi. La finanziarizzazione permette la messa in forma aziendale del lavoro immateriale vivo, ma questa metamorfosi presuppone la produzione di plusvalenze (premio del rischio) senza le quali l’intero processo non potrebbe neppure incominciare. Il premio del rischio che contrassegna il passaggio in Borsa delle start up, così come lo “scarto d’acquisizione”, o plusvalore (goodwill, in inglese [15]), risultante dalla differenza tra il valore di mercato e il valore contabile delle società assorbite nei processi di fusione, sono il prezzo della sottrazione del sapere o, simmetricamente, della eccedenza del general intellect, che rappresenta la contraddizione specifica del nuovo capitalismo cognitivo. In entrambi i casi si tratta della messa a bilancio di un attivo intangibile che rappresenta la trasformazione in merce del sapere e della conoscenza, un valore che è necessario per attirare capitali in una fase in cui la stessa organizzazione locale e globale dei mercati finanziari orienta le scelte degli investitori sulla base di logiche di rendimento competitive.
I mercati finanziari sono certamente autoreferenziali, nel senso che i valori borsistici tendono a “scollarsi” dai valori economici delle imprese quotate in virtù del comportamento imitativo“ [16] (implicito nel funzionamento delle convenzioni keynesiane) tipico della comunità degli investitori. Ma è un errore non vedere in questa dinamica autoreferenziale, che ciclicamente sfocia nelle esplosioni delle bolle speculative, la contraddizione insita nella trasformazione in merce del lavoro immateriale.
Il lavoro cognitivo innovativo è per definizione “open source” [17], cooperativo, relazionale, comunicativo e sempre più globale. Per essere comandato e mercificato, cioè organizzato in attività imprenditoriale, deve essere prima di tutto gerarchizzato e finanziarizzato, ciò che comporta l’appiattimento e la sottrazione del sapere diffuso, e la sua regolazione secondo i principi del business plan. Ma questa operazione non è indolore, ha un suo premio/prezzo, che nel lancio delle strart up ingenera sopravvalutazioni “folli” che destabilizzano l’andamento normale dei mercati ampliandone la volatilità e l’instabilità, mentre nel caso delle acquisizioni e fusioni di imprese (con le Offerte Pubbliche d’Acquisto, le OPA) comporta la razionalizzazione e la flessibilizazzione del lavoro come controparte della “messa a bilancio” degli attivi intangibili acquisiti.
Ciò che unisce la lotta dei ricercatori e quella dei lavoratori flessibili e intermittenti è precisamente la contraddizione dei processi di immaterializzazione del lavoro : l’anima e il corpo del lavoro immateriale trova la sua concreta espressione sul terreno della finanziarizzazione del capitalismo cognitivo. Le lotte dei precari e quelle dei ricercatori riflettono la medesima contraddizione di un capitalismo che per funzionare sottrae sapere producendo eccedenze cognitive e soggettive, le “libera” escludendole dai processi redistributivi della ricchezza sociale.
Capitalizzazione e socializzazione [18].
Prima di guardare alla fase che segue la crisi-trasformazione della new economy, iniziata nel marzo del 2000 e tuttora in corso, prima cioè di analizzare la riconfigurazione del rapporto tra finanza e produzione di conoscenza-innovazione, è opportuno fare alcune osservazioni a proposito del capitale finanziario come espressione del capitalismo cognitivo post-fordista.
In primo luogo, la finanziarizzazione dei processi economici sopra descritto non deve essere vista con lo sguardo (fordista) di una perversione, di un semplice fenomeno speculativo, moralmente condannabile, o di un semplice prolungamento delle forme classiche del capitale finanziario (à la Hilferding), ma come una vera e propria innovazione interna al funzionamento del capitalismo che, a modo suo, esprime le caratteristiche del nuovo periodo post-fordista : fluidità e incertezza. I mercati finanziari sono contemporaneamente l’opposto e l’equivalente delle nuove condizioni della produttività del lavoro e della produzione di innovazione.
In secondo luogo, ciò che caratterizza il nuovo capitale finanziario èlafusione dell’insieme delle funzioni della moneta [19]. Questa fusione muta il ruolo e l’importanza del sistema bancario, ma soprattutto autorizza la messa in relazione diretta di tutte le forme e gli utilizzi del denaro. Ogni somma di denaro può metamorfosarsi in investimento su titoli azionari e obbligazionari. Questa situazione modifica le frontiere tra salario e profitto, e dunque la delimitazione semplice e meccanica tra classi sociali direttamente opposte nella ripartizione della ricchezza creata. La partecipazione diretta dei salariati all’investimento sui mercati di azioni e obbligazioni non è più un fenomeno marginale : è invece costitutivo della nuova condizione salariale. La distinzione tradizionale tra salario diretto e salario socializzatoèinviad’estinzione.Neè un indicatore la diffusione in tutti i paesi dei sistemi pensionistici a capitalizzazione (II pilastro, o pensione integrativa). Il salario socializzato (o differito) circola ormai mondialmente attraverso l’intermediario dei fondi di investimento e dei fondi pensione. Il concetto stesso di “salario socializzato” diviene inadeguato. Il nocciolo del dibattito sul destino dei sistemi previdenziali non riguarda l’opposizione tra un sistema solidale di ripartizione e uno individuale di capitalizzazione. L’opposizione è, invece, tra un salario socializzato gestito nazionalmente e una frazione del movimento del capitale investito mondialmente.
“Quando si esamina - scrive Zarifian - il comportamento reale e non moralizzato dei fondi pensione o d’investimento, si vede che sono messi in gioco dei calcoli d’anticipazione, nei quali la valutazione della strategia produttiva e competitiva delle grandi imprese e della qualità decisionale dei vertici manageriali è assolutamente presente. Non c’è dissociazione, ma piuttosto espressione, traduzione e riduzione in investimenti finanziari delle prospettive di redditività della strategia d’impresa. E’ questa traduzione/riduzione che spiega le pressioni temporali sul breve termine e i livelli elevati di rendimento atteso, e che si gioca nel dialogo serrato che i dirigenti dei fondi intrattengono con i vertici manageriali delle imprese globalizzate. Si manifesta una distinzione, ma non una dissociazione. Il capitale di investimento introduce, nelle strategie produttive, un ideale di fluidità e di anticipazioni rischiose che fanno pressione sull’investimento produttivo, ma non se ne separa [20]”.
È proprio perché esiste nel medesimo tempo differenza e associazione tra i gestionari dei fondi pensione e di investimento e i dirigenti delle grandi imprese produttive, con un chiaro dominio dei primi sui secondi, che si può parlare della formazione di una nuova categoria di capitalisti,costituita da questa associazione. Dunque, di una nuova definizione del capitale finanziario, notevolmente differente da quella data da Hilferding e ripresa da Lenin. Il capitalismo cognitivo e finanziario va capito nella sua globalità, e non isolando questa o quest’altra sua forma.
Dopo la crisi dellanew economy
L’esplosione della bolla speculativa del marzo 2000 è la prima crisi finanziaria del capitalismo cognitivo. È, in primo luogo, una crisi finanziaria che mira a scardinare le traiettorie “dal basso verso l’alto” della imprenditorializzazione del general intellect, la sua “entrata in Borsa” con le start up. Da questo punto di vista è la dimensione locale del capitalismo cognitivo che viene attaccata dalla crisi borsistica, in particolare la concentrazione nella Silicon Valley del maggior numero di nuove imprese high tech, la cui proliferazione ha contribuito alla crisi da “sovrapproduzione digitale” e alla successiva scomparsa di molte delle imprese internettiane.
Ma la crisi del 2000 è anche la crisi della particolare spazializzazione mondiale della new economy. La “convenzione Internet”, che “tira” i mercati tra il 1998 e l’inizio del 2000, non è che l’espressione del più vasto e strutturale processo di “cognitarizzazione” del lavoro, dello spostamento delle leve dell’innovazione dai “corpi separati” della Ricerca&Sviluppo di fordiana memoria, ai corpi vivi della forza-lavoro. I capitali, che dal resto del mondo confluiscono sui titoli azionari e obbligazionari di imprese quotate sui mercati borsistici statunitensi, inseguono letteralmente i flussi di ricercatori statunitensi, europei e asiatici che negli anni ‘90 vanno alla Silicon Valley, come un tempo i giovani attori andavano a Hollywood.
L’afflusso di capitali e di forza-lavoro cognitiva all’interno e verso gli Stati Uniti, in un certo senso l’americanizzazione del general intellect, è all’origine della crescita spettacolare del settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e degli “effetti ricchezza” generati dalle rendite finanziarie. La crescita del PIL è dovuta in particolare alla crescita del settore delle nuove tecnologie, mentre la domanda di beni e servizi è determinata dall’aumento dell’offerta. Gli anni clintoniani della new economy sono contrassegnati da un’espansione keynesiana di tipo nuovo, nel senso che, mentre diminuiscono i redditi sociali erogati dal Welfare State, aumentano le entrate fiscali dovute alle tasse sui capital gains, permettendo così al budget federale di realizzare addirittura degli avanzi. Si può parlare di “keynesismo finanziario”, di regolazione macroeconomica basata sul deficit spending privato delle imprese e delle famiglie.
Negli Stati Uniti la crisi segna il passaggio dalla crescita sul lato dell’offerta alla crescita sul lato della domanda. Tra la fine del 2000 e il 2003 la politica monetaria della Federal Reserve è tutta finalizzata a sostenere la domanda delle economie domestiche facilitando l’indebitamento. Con tassi di interesse praticati dalla Fed attorno all’1%, quindi negativi in termini reali, si assicura il mantenimento del consumo a livelli elevati grazie all’eliminazione del risparmio e all’indebitamento ipotecario (remortgaging) delle famiglie favorito all’inflazione dei valori immobiliari. Diversamente dalla grande depressione degli anni seguenti la crisi del ‘29, contrassegnata dalla deflazione della domanda di consumo di beni e servizi, gli anni che seguono la crisi della new economy sono caratterizzati dalla deflazione della domanda di beni strumentali, in particolare delle TIC [21].
L’uscita dalla crisi della new economy ridisegna spazialmente la ripresa del capitalismo cognitivo su scala mondiale. Di nuovo, i capitali inseguono i movimenti del cognitariato, ma questa volta dagli Stati Uniti verso i paesi asiatici, con i processi di outsourcing e di offshoring in paesi in cui il costo del lavoro vivo è dieci volte inferiore a quello dei paesi sviluppati. La crisi della finanziarizzazione del lavoro cognitivo e innovativo degli anni ‘90, l’impossibilità di riprodurre il circolo virtuoso delle start up e delle Merge&Acquisitions sulla base dell’afflusso continuo di capitali negli Stati Uniti, ma ciononostante la necessità di rilanciare l’accumulazione capitalistica sulla base del lavoro immateriale innovativo, costringe il capitale a compensare la perdita delle plusvalenze (dei premi del rischio e dei goodwill) con la riduzione drastica del salario dei lavoratori cognitivi [22].
La crisi del 2000 è, da questo punto di vista, un vero e proprio attacco alla potenza materiale del general intellect, alla sua forza contrattuale [23] che, negli anni del boom della new economy, sposta ricchezza dagli azionisti ai knowledge workers [24]. Cina e India rappresentano straordinari bacini di forza-lavoro a basso costo pronta ad entrare nei circuiti globali della produzione di TIC e di beni e servizi immateriali. Rappresentano, anche, l’occasione per deterritorializzare il general intellect, precarizzandolo all’interno delle economie sviluppate e riterritorializzandolo nei paesi di nuova industrializzazione [25].
La ricomposizione globale del cognitariato.
La riconfigurazione mondiale del capitalismo cognitivo, l’inversione dei flussi di investimenti diretti all’estero, la precarizzazione dei lavoratori cognitivi nei paesi sviluppati e la moltiplicazione di nuove Silicon Valley in paesi economicamente emergenti, costringono a ridefinire lo spazio di ricomposizione politica del cognitariato. Si tratta sin da subito di abbandonare l’idea di una guerra commerciale tra paesi del centro e paesi emergenti, con il suo correlato protezionistico nazionale.
L’inversione del flusso di investimenti all’estero che si è imposta sui mercati finanziari negli ultimi tre anni riflette la crescita formidabile dei deficit (federale e commerciale) degli Stati Uniti e i surplus dei paesi asiatici, di cui quello cinese, se si tiene conto del flusso di investimenti diretti stranieri, supererà quest’anno il 5 percento del PIL. Riflette, anche, l’accumulazione di riserve monetarie da parte dei paesi asiatici, riserve che le banche centrali utilizzano per frenare la svalutazione del dollaro acquistando Buoni del Tesoro americani (ciò che, tenendo bassi i rendimenti sui BOT, permette ai mercati finanziari US di proteggersi dall’indebolimento del dollaro). Fino ad oggi questa inversione di flussi di capitali non ha provocato scossoni particolari, e questo perché la svalutazione del dollaro ha fatto aumentare (benché in modo insufficiente) le esportazioni dei beni americani e, soprattutto, ha avuto quale effetto monetario quello di aumentare i profitti rimpatriati delle filiali estere delle multinazionali statunitensi.
Per quanto instabile, l’equilibrio che si è stabilito sui circuiti monetari e finanziari mondiali non dovrebbe degenerare in una guerra commerciale tra Stati Uniti, Cina e gli altri paesi asiatici, come il Giappone, che hanno surplus commerciali importanti. Gli americani hanno bisogno di vendere BOT agli asiatici, e gli asiatici, pur esportando sempre di più, hanno bisogno di importare materie prime e beni strumentali dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali per mantenere tassi di crescita sostenuti. Senza contare che un numero crescente di beni prodotti in Asia e esportati verso gli Stati Uniti sono, di fatto, il risultato di processi di offshoring da parte di multinazionali statunitensi in paesi come la Cina e, sempre di più, l’India. In questo senso gli Stati Uniti commerciano prevalentemente con se stessi. “Quando Wal-Mart Stores Inc. importa la maggior parte dei suoi prodotti o Intel Corp. produce gran parte dei suoi microprocessori offshore, questo è fantastico per la cifra d’affari della compagnia. Ma contribuisce a determinare uno squilibrio commerciale che è diventato strutturale. Gli Stati Uniti, come sponsor della liberalizzazione del commercio, promuovono anche accordi come il NAFTA, che favoriscono le esportazioni dei partner commerciali più di quelle americane” [26].
E’ precisamente la strutturalità del deficit commerciale americano che, se da una parte riflette la globalizzazione dei processi produttivi, dall’altra riduce notevolmente l’effetto della svalutazione del dollaro sugli squilibri fondamentali. Non si può sostenere, come fa l’economia standard, che il deficit commerciale rispecchia principalmente le fluttuazioni del deficit pubblico e dei tassi di cambio. L’idea secondo cui “più il governo si indebita e più capitali devono essere importati”, è contraddetta dai fatti : durante gli anni 90, il deficit commerciale statunitense non ha smesso di crescere malgrado la progressiva eliminazione del disavanzo federale e malgrado la recessione del ‘91. L’accordo raggiunto a Boca Raton il 7 febbraio 2004, secondo cui i paesi del G7 si impegnano a ridurre la pressione sull’euro e a favorire una maggiore flessibilità dei tassi di cambio delle monete asiatiche, non solo avrà scarsi effetti reali sui rapporti di cambio, ma non inciderà minimamente sugli squilibri fondamentali che sono maturati negli anni del dopo-crisi [27].
Con la ripresa dei mercati borsistici a partire dal 2003 quale effetto del risanamento finanziario delle imprese, nei primi mesi del 2004 si è avviata una nuova ondata di OPA e di Mergers&Acquisition, non solo in Asia, dove il numero di OPA e di start up è in forte aumento [28], ma anche in Europa e negli Stati Uniti, seppure con minore intensità [29]. Rispetto agli anni ‘90 e al 2000, in cui gli investimenti erano principalmente orientati verso la rapida capitalizzazione delle innovazioni prodotte da imprese emergenti, nella fase attuale è la razionalizzazione delle imprese, la flessibilizzazione e l’esternalizzazione della forza-lavoro, la riduzione dei salari e l’aumento della produttività, che definiscono i criteri in base ai quali rilanciare gli investimenti. In altre parole, oggi la filosofia manageriale è “impatient for profit but patient for growth” [30].
Siamo entrati in una fase in cui la dimensione globale del capitalismo cognitivo, con l’inclusione di aree di sviluppo quali l’Asia e l’America latina, è contrassegnata da politiche di regolazione “verso il basso” del valore della forza-lavoro. Soprattutto nei paesi del Centro, la produzione di conoscenza e di innovazione a mezzo di precarizzazione è il segno distintivo di questa nuova fase. Le scuole, i centri di ricerca, le imprese flessibili, il mercato del lavoro, sono tutti “luoghi” in cui l’attacco al valore della forza-lavoro ha quale obiettivo prioritario quello di eliminare i margini di ricomposizione politica del proletariato cognitivo, del cognitariato.
Nel corso della crescita del capitalismo industriale, la lotta di classe nei paesi del Centro, la lotta politica sul salario e la negoziazione collettiva tra salariati e capitale, hanno sovvertito le regole di calcolo del saggio di profitto [31]. In epoca fordista si diceva che “un operaio del Michigan può comprare con un’ora del suo lavoro il prodotto di una giornata intera del suo collega vivente al Sud”. I capitali si dirigevano dal Sud al Nord perché i salari nei paesi del Centro erano superiori a quelli dei paesi della periferia. Le lotte dell’operaio multinazionale hanno comunque screditato l’idea secondo cui “è la classe operaia dei paesi ricchi che sfrutta la classe operaia dei paesi poveri”. Certo, il divario tra Nord e Sud non è diminuito, si è anzi ampliato, ma il ciclo di lotte dell’operaio fordista ha fatto saltare il modello fordista, costringendo il capitale a svilupparsi su scala globale mettendo al lavoro le qualità più generali della forza-lavoro, le sue facoltà cognitiva, relazionale e comunicativa.
L’inversione dei flussi di capitali dal Centro verso i paesi di nuova industrializzazione non permetterà sicuramente a un’ora di lavoro di un operaio indiano o cinese di comperare il prodotto di una giornata del suo collega americano o europeo. Ma le lavoratrici dei supermercati della Wal-Mart o i produttori di software del Nord lavorano effettivamente di più per un salario inferiore. Il che significa che la lotta contro la precarietà e per l’aumento del reddito ha ormai una dimensione globale che unisce i destini della moltitudine.